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E'
la quinta volta che sfidiamo una tempesta di sabbia e restiamo
fottuti in mezzo al deserto; inibiti dentro una 4x4 che avendo l'asse
inclinato riesce a malapena a tenere la destra.
Ci
si abitua facilmente a questo paesaggio di case diroccate, di case
senza tetto, di case senza case che spuntano come funghi lungo il
ciglio di quella che per il paese in cui ci troviamo, la Palestina,
dovrebbe corrispondere ad un'autostrada; un'autostrada atipica, che
ricorda solo quelle del Cairo e di Bombay, in cui capita spesso di
trovare macchine che, contromano, si divertono a schivarsi o, in
alternativa e in caso di scarsa visibilità come oggi, a giocare
all'autoscontro; ci si abitua presto ai fari verdi dei minareti,
segnalati ogni duecento metri dai cori di chi ha potuto permettersi
l'altoparlante più grosso da coprire i fantasmi delle nenie vicine.
Ci
si abitua meno a queste lapidi sparse nelle campagne abbandonate,
riconoscibili solo da un mucchietto di pietre ammassate, che se non
lo sai pensi subito a disfarle, come fanno i bambini che con una
pedata trascinano in mare i castelli di sabbia.
(quanto
mi riescono bene i castelli di sabbia, quanto mi riesce bene far
vivere d'amore e d'accordo i due ometti che ci abitano dentro)
Dicevo
dei mucchietti di pietre.
Ci
si abitua così presto a questi paesaggi che a me bastano appena due
settimane per pensare a quanto sarebbe inopportuno, stupido, a quanto
sarebbe banale se in questa terra che dicono delle contraddizioni
esistesse qualcosa in più di ciò che serve a mangiare, a dormire, a
pisciare e a campare.
A
Betlemme, ad esempio, non ci sono piazze monumentali.
Il
motivo è semplice. Sono inutili. Oppure ci sono state, sono state
bombardate e mai più ricostruite, perché inutili, credo, o perché
negli ultimi anni ci si sta impegnando di più alla costruzione del
muro che la separa dalla città di Gerusalemme; un muro spesso, che
le gira tutto intorno, di un colore grigio topo ravvivato da alcuni
murales colorati visibili soltanto da parte Palestinese.
All'alba
di questa mattina, la bambina con lo sguardo imbrattato di kajal,
provvista di foulard, di un pigiama arancione con orsetto e della
consueta scatola di biscotti del 1988 con dentro sassolini colorati,
è scesa in strada a lavorare; che se fosse andata bene e non me li
avesse regalati tutti perché quel giorno avevo gli occhi belli, ci
avrebbe fatto tre euro.
Invece
mi ha bussato in pancia e, non avendo avuto alcun tipo di risposta, è
andata a fumare in disparte accanto a un cammello.
Avrei
voluto portarla via. Sarei dovuta restare lì.
Dovevo.
Potevo. Volevo.
Il
diario di viaggio è caduto dentro un laghetto di piscio.
Se
ci fosse caduta la reflex che ho rubato adesso mi sentirei peggio,
sebbene non ricorderò mai cosa ha avuto il coraggio di partorire la
mia testa per i prossimi dodici fogli, e voi non saprete mai chi è
il colpevole del soffocamento di una blatta gigante che sostava a
riflettere stamattina sotto il materasso bucherellato dal quale sto
scrivendo.
Ah,
una terribile notizia per gli ottimisti che amano curare da sempre il
proprio orticello: le ragazzine dalle labbra rosse e dal piede
leggero che a sedici anni impugnano un kalashnikov senza avere avuto
mai le mestruazioni, la fame che si legge negli zigomi sporgenti dei
bambini e i confini cementati color grigio topo non restano elementi
circoscritti di una società lontana incapace di turbare i vostri
quartieri, un vicinato cordiale e il giornalaio di fiducia in cui
passare le mattinate in compagnia dei grattaevinci perché la storia
ci insegna, nella maggior parte dei casi, che non esistono confini in
grado di sterilizzare un paese dalle infezioni interne di un altro.
Auguri.
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Variazioni il 11/1/2010 alle 0:37 | |